Giorgio Buccellati, Critique of Archaeological Reason

Work in progress

Agnese Bezzera, October 2014
Un archeologo sulla terra

     Il presente contributo si propone di analizzare il ruolo della continuità nell’archeologia, intesa come presupposto fondamentale dello svolgersi di una qualsiasi indagine storico-retrospettiva.
     L’affermazione che la continuità sia alla base dello studio archeologico potrebbe apparire assurda, in quanto l’archeologia si occupa proprio di quei momenti della storia in cui una civiltà, un uso, un oggetto scompaiono tanto da essere sotterrati dal loro stesso declino. Usando le parole di Giorgio Buccellati: “l’archeologia può essere intesa come lo studio delle tradizioni interrotte”1.
     Per superare questo paradosso, sarà necessario rivolgersi alla riflessione filosofica con cui si indagheranno i presupposti dell’attività archeologica.
     
L’impossibilità di un confronto diretto
     Nello studio di una civiltà ormai scomparsa non è possibile, per definizione, chiedere ad un portatore culturale di spiegare la funzione di un oggetto o di un edificio. Essa deve essere ricavata da un sommarsi di indizi materiali, che però non sono “pezzi di senso”, ma veri e propri frammenti di “cose” che devono essere ricollocati tentativamente nell’originaria posizione reciproca. In sintesi: l’archeologo si trova dinnanzi ad una rovina come uno che «senza avere alcuna conoscenza del gioco degli scacchi, volesse ricavare il significato della parola “scacco matto” da un’attenta osservazione dell’ultima mossa di una partita a scacchi»2.
     Posta in questi termini, la posizione dell’archeologo (per riprendere l’immagine usata da Buccellati nell’articolo sopra citato3) è assimilabile a quella di Temple Gradin, una donna affetta da autismo che, a proposito della sua patologia, racconta come, non avendo accesso alla comunicazione non verbale fondata sull’empatia, avesse un’unica strada per comprendere le emozioni delle persone: creare una collezione di espressioni fisiche a cui collegare un presunto significato, da confrontare poi con la situazione in cui si veniva a trovare.4 Analogamente, l’archeologo non ha mai accesso diretto al senso, in quanto immateriale, ma lo deve ricostruire sommando i frammenti concreti degli oggetti che porta alla luce. Secondo questa concezione, l’interruzione cronologica tra l’archeologo e la cultura ormai perduta gli rende quest’ultima completamente aliena: è un archeologo su Marte.
     
Lo studio del passato: archeologia e filosofia a confronto
     Realmente l’archeologo si trova in questa situazione? Sarà fruttuoso confrontare la posizione precedentemente esposta con la modalità con cui la filosofia si pone nell’analisi della storia dell’uomo, sia nel corso della sua storia, che nel suo essere inserito in una comunità.
     La filosofia, quando si rivolge allo studio dell’uomo, presuppone sempre una continuità. L’io trascendentale di Kant ne è forse il miglior esempio: si può studiare l’uomo solo assumendo che ogni individuo particolare condivida con tutti gli altri membri del genere umano le medesime strutture intellettuali. Al contrario, quando la filosofia studia un soggetto in particolare senza poter dire “così è anche per gli altri” (solipsismo), si trova incapace di compiere un’indagine culturale e storica, poichè queste discipline presuppongono un’intersoggettività. Quindi la filosofia si rivolge sempre alla storia come successione di “punti particolari di soggettività” continui, analizzabili proprio perchè si parte dall’assunto che l’uomo più antico condivida con l’uomo che lo sta studiando il medesimo modo di stare nel mondo, pur variando il mondo che lo circonda.
     Per capire questo, può essere utile citare un esempio concreto nella storia della filosofia. Andando alle origini di questa disciplina, è sorprendente come già in Platone fossero state messe in gioco tutte le grandi problematiche del pensiero umano, e che la storia della filosofia si presenti come un continuo approfondimento delle medesime questioni: i problemi sono uguali, ciò che cambia è il modo di risolverli. È com’è fatto l’uomo, infatti, che determina i suoi problemi, sia fisicamente sia intellettualmente: per cui se l’uomo respira aria tramite i polmoni, in immersione dovrà servirsi di una canna che esca dall’acqua o immagazzinarla in bombole di ossigeno; se l’uomo deve giustificare il potere di un sovrano, potrà dire che è per volontà divina, o per democratica elezione.
     Ora, l’archeologia si occupa per definizione di quelle tradizioni che, sia dal lato intellettuale (una lingua, una struttura sociale), sia dal lato concreto ( un manufatto, una città), si sono interrotte e sono state sepolte sotto il loro stesso declino. Essa potrebbe dunque essere definita come la disciplina che studia di quei particolari punti del fluire storico in cui la continuità si spezza.
     L’archeologo si trova quindi davanti ad una rovina potendo affermare che «dev’esser stata una casa perchè nessuno erigerebbe un tal mucchio di pietre lavorate e irregolari. E se si domandasse: come fai a saperlo? Potrei solo dire: me lo insegna la mia esperienza con gli uomini. Anzi, perfino là dove costruiscono veramente delle rovine, ricalcano le forme di case crollate»5.
     Se, da un lato, l’archeologo si ritrova nell’impossibilità di comprendere il significato di una “forma di vita” ormai interrotta, in quanto il senso di un manufatto non è un oggetto nascosto che si tratta semplicemente di scoprire, ma è inserito e giustificato nel sistema di usi e costumi chiamato “cultura”; dall’altro egli può ipotizzare questo senso basandosi sulla propria esperienza umana, cioè presupponendo una continuità.
     
La riconquista della continuità
     L’archeologo dunque non è come l’autistico, anche se, come una persona affetta da questa patologia si trova negato l’accesso diretto a tutto ciò che non è materiale; ma se in un soggetto autistico si ha un’impossibilità strutturale di entrare in contatto con la comunità, l’impossibilità a cui l’archeologo deve far fronte è dovuta a un’interruzione contingente della tradizione. Non c’è una causa strutturale del declino di una cultura: sono “solamente” deceduti tutti i sui portatori. Se l’archeologia si occupa delle interruzioni delle tradizioni, un soggetto autistico si potrebbe definire come condannato ad un’impossibilità della tradizione.
     Prendiamo però un esempio concreto per comprendere come l’archeologia si comporta in un caso simile all’autismo, ossia quando si occupa di individui con cui non si condividono le strutture intellettuali.
     Nello studio della preistoria, come nel caso del ritrovamento di un cranio di 1.800.000 anni fa di un ominine sopravvissuto senza denti per qualche anno a Dnamisi, l’archeologia si trova proprio davanti a questa sfida, dato che per esempio sia lo sviluppo del cervello, che quello della gola non permettevano l’articolazione linguistica. L’interruzione in casi come questi sembra troppo radicale, poichè intacca la più profonda delle connessioni storiche, ossia l’appartenenza al genere umano.
     Eppure, anche qui, una delle deduzioni più interessanti che si possono trarre da questa scoperta è che, per rimanere in vita senza denti (e dunque in una situazione di deboleza e malattia), ci deve essere stato qualcuno che lo accudiva. Questo modo di agire “caritatevole” diviene la conessione tra la nostra società e quella primordiale forma di convivenza tra ominini. È da notare come il ritrovamento di un cranio sdentato, in quanto oggetto materiale, di per sè non dica nulla della società che ha tenuto in vita l’uomo al quale il cranio apparteneva. Il suo valore, però, non è solamente determinato dal suo provenire da epoche lontanissime, ma soprattutto dal testimoniarci come poteva essere strutturata la società dell’ominine a cui apparteneva. Anche in questa distanza apparentemente incolmabile (cioè il non appartenere alla stessa specie) l’archeologo muove la sua ricerca ancora nel tentativo di ritrovare continuità nascoste.
     Se dunque possiamo riconoscere nell’archeologia la scienza che si occupa dello studio delle interruzioni della storia, allo stesso tempo dobbiamo ammettere che la continuità ne rappresenta uno dei presupposti fondamentali, ed è merito del metodo filosofico aver reso evidente questa connessione che all’inizio poteva apparire paradossale.
     È ora chiaro come un archeologo non muova mai la sua ricerca presupponendo di trovarsi di fronte dei marziani, ma uomini terrestri come lui; fino a poter dire che è proprio lo studio archeologico quella modalità che l’uomo ha per ricucire le continuità spezzate.

1     Giorgio Buccellati, An Archaeologist on Mars, 2006.
2     Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen. Philosophical Investigations, Oxford, 1953 par 316. (Trad. It.: Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967).
3     Giorgio Buccellati, 2006
4     Oliver Sacks, An Anthropologist on Mars:Seven Paradoxical Tales, Knopf Doubleday Publishing Group, 2012.
5     Ludwig Wittgenstein, Bemerkungen Über Frazers Golden Bough, Brynmill, 1991. (Trad. It.: Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Adelphi, Milano, 1992, p. 46).

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