Giorgio Buccellati, Critique of Archaeological Reason

Work in progress

Davide Tomaselli, October 2014
Simmaco e Ambrogio: identità pagana e identità cristiana alla fine del IV secolo

     Nell’estate del 384 d.C. avvenne a Milano un episodio destinato a rimanere nella memoria collettiva del mondo occidentale come uno dei momenti dialettici più paradigmatici fra il paganesimo e il cristianesimo, già da alcuni anni religione ufficiale dell’impero: Simmaco, prefetto della città di Roma fra il 384 e il 385, si recò a Milano per chiedere all’imperatore Valentiniano II la ricollocazione dell’altare della dea Vittoria nell’aula del Senato.
     Nel 382, infatti, l’imperatore cristiano Graziano, volendo spezzare lo stretto legame da sempre esistente fra Stato e religione tradizionale, attuò una serie di provvedimenti il cui scopo era quello di porre il cristianesimo in una posizione di privilegio rispetto al paganesimo: furono aboliti i fondi erogati dallo Stato al culto pagano, come anche le sovvenzioni e le immunità fiscali di cui prima godevano le Vestali e gli altri collegi sacerdotali. Graziano, inoltre, decise di rimuovere dall’aula della Curia Iulia l’altare della Vittoria, già spostato da Costanzo II nel 357 e riposizionato nello stesso luogo probabilmente dal pagano Giuliano. Proprio in seguito a tali provvedimenti la fazione pagana del Senato prese la comune decisione di inviare a Milano, sede della corte imperiale, uno dei più noti esponenti dell’aristocrazia senatoria romana, Quinto Aurelio Simmaco.
     Alla presenza del dodicenne Valentiniano II accompagnato dai suoi tutori, i veri detentori del potere effettivo dell’impero, Simmaco pronunciò la celebre III Relatio, con la quale auspicava il ritorno allo statum religionum1 precedente ai provvedimenti del 382.2 Secondo l’abile oratore, ogni argomento razionale è inaccessibile alla mente umana, quindi per conoscere il divino non resta che affidarci alla ricchezza della tradizione, senza cedere a pericolose novità. Non importa, afferma ancor più radicalmente il Prefetto dell’Urbe, attraverso quale dottrina l’uomo si affacci al mistero dell’essere. Il giudizio conclusivo della cosiddetta sezione teologica è perentorio: «uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum»3. Questa è la ragione profonda per cui, secondo l’astuto Simmaco, non è giusto e conveniente lasciare che il cristianesimo imponga il suo volto autoritario; questo esclude ogni altra possibilità di accesso al vero, mentre è stata la religione tradizionale, dotata di una connaturata apertura all’altro, che ha assicurato all’anziana Roma la sopravvivenza e l’infinito numero dei suoi successi.
     Venuto a sapere delle richieste rivolte all’imperatore da Simmaco, intervenne nell’agone della controversia lo stesso Ambrogio con due lettere rivolte a Valentiniano II. Nella lettera XVIII il vescovo di Milano, come già il nemico pagano, fa parlare la stessa città di Roma: essa assicura di essere pronta a convertirsi nonostante l’età avanzata, non considerando una vergogna il migliorarsi. Bisogna forse fidarsi di chi, sconosciuto a se stesso, brancola nel buio o di chi ha conosciuto la verità dalla stessa voce di Dio?
     Lo studio di questo dibattito, diventato uno degli argomenti più dibattuti dai tardo-antichisti, permette di fare importanti considerazioni anche riguardo all’identità pagana e cristiana in un momento storico così particolare, in cui la prima esperienza religiosa si stava avviando al suo tramonto apparentemente definitivo, mentre la seconda sembrava promettere un’improvvisa aurora. Cosa significa essere pagani e cristiani al tempo di Simmaco? È forse il paganesimo espressione di una tradizione allora interrotta o manifesta ancora segni di vita?
     Dall’analisi delle argomentazioni di Simmaco non possiamo assolutamente ritenere il paganesimo una formazione religiosa pronta ormai ad esalare il suo ultimo respiro; anzi tale tradizione trova in Simmaco un suo illuminato rappresentante, capace di combattere il cristianesimo con mezzi adatti ad un’età in cui sarebbe risultato anacronistico aspirare ad una eliminazione totale della nova religio. Il prefetto urbano, sul finire del IV secolo, non può far altro che sognare per il proprio culto la possibilità, difficile a realizzarsi, che questo riesca a convivere con gli altri culti allora esistenti, magari dopo aver riconquistato il ruolo privilegiato di religione di Stato. Siamo lontani dal periodo in cui il cristianesimo poteva essere perseguitato con efficacia e sistematicità dai potenti dell’impero.
     Tuttavia l’identità pagana viene ancora nitidamente percepita dai suoi portatori attivi ed essa mantiene in sé come tratto caratteristico la pratica fedele e sistematica dei culti tradizionali: la religione romana, ai tempi di Cicerone come ai tempi di Simmaco, è una religione del rito, il quale ha bisogno di essere eseguito con diligenza, affinché la benevolenza degli dei continui a riversare sulla comunità i suoi frutti positivi. Questo elemento distintivo dell’identità pagana rimane alquanto invariato, a tal punto che Graziano, volendola penalizzare in modo drastico, ne colpisce l’espressione rituale attraverso l’eliminazione degli aiuti economici. Per questo ritengo che parlare dell’identità del politeismo pagano come qualcosa di completamente fluido e sempre facile all’adattamento, come in parte verrà fatto nel testo in seguito preso in analisi, possa portare a equivoci: il volto particolare della religione tradizionale non muta nella sua generale fisionomia, dal momento che il pagano non può non percepire l’innovazione radicale della propria identità come pericolosa sovversione dell’ordine costituito.4 Non si vuole certo negare il carattere aperto ed inclusivo del politeismo romano, il quale, come è noto, è pronto a comprendere nel proprio pantheon alcune divinità dei popoli stranieri mano a mano dominati da Roma. Tuttavia questo può avvenire solo nel caso in cui l’ammissione del culto straniero non minacci la conservazione del mos maiorum: l’identità pagana tradizionale, dunque, non può essere radicalmente sovvertita.
     Rimane, comunque, indiscutibile che Simmaco affronti determinati temi con un approccio del tutto particolare, raffinato e sorprendentemente moderno, pur nel generale rispetto della sua tradizione religiosa. Nel tentativo di trovare uno spazio di dialogo con l’interlocutore cristiano, egli afferma con chiarezza che tutti gli uomini, nella varietà di approcci al mistero, adorano la stessa entità; per questo è insignificante la dottrina con cui decidiamo di raggiungere la verità. Il paganesimo di IV secolo, dunque, è pronto a colorarsi di leggere sfumature monoteistiche pur di non essere escluso dalla scena pubblica dell’impero.5
     L’identità cristiana, invece, lungi dall’avere come proprio fulcro la pratica rituale, si fonda innanzitutto sull’adesione personale (non più esclusivamente comunitaria) a contenuti giudicati affidabili; questo permane invariato nel corso di tutta la sua storia millenaria. Tuttavia, nella situazione storica in cui ora ci troviamo, l’identità cristiana è incarnata nel vescovo Ambrogio, il quale affronta la questione da civis romanus, ancor prima che da homo christianus; dunque, se ci è concesso esprimerci in questi termini, la sua identità cristiana non è pura, ma permeata da una mentalità che è ancora quella tradizionale romana. Infatti, il vescovo di Milano non può ammettere la presenza dell’altare della Vittoria in Senato, in quanto il paganesimo ha abbandonato il ruolo di religione di Stato, cedendo il posto alla nova religio. La mentalità romana di Ambrogio si rende manifesta proprio nella vivida percezione, da lui avuta ed espressa, della necessità di una religione che sia situata in una posizione di privilegio rispetto alle altre; essa serve a garantire il felice stato della situazione pubblica.6 L’identità cristiana, con Ambrogio ancora in cerca di un suo volto definitivo, troverà nel geniale Agostino un altro valido e illuminato rappresentante, grazie al quale essa inizierà a sganciarsi dalla forma mentis tradizionale.
     La lettura, a tratti controversa ma comunque stimolante, del testo di Remotti Contro l’identità ha offerto numerose occasioni di approfondimento a queste nostre riflessioni. L’autore del testo propone al lettore una nuova immagine di identità: questa «non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. E se è un fatto di decisioni, occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità, per adottarne una di tipo convenzionalistico»7. Secondol’antropologo, dunque, l’identità deve sempre essere costruita, inventata, mai accettata come qualcosa di fisso, immutabile, esistente di per sé. Le osservazioni da noi fatte circa l’identità pagana e quella cristiana, nella loro fisionomia originaria e nella loro forma incarnata in Simmaco e Ambrogio, sembrano, in parte, testimoniare la veridicità di tali affermazioni: l’identità pagana e quella cristiana sono due realtà che si approfondiscono nel tempo, mutano rispetto alle diverse situazioni contingenti, ma che non possiamo considerare come pura finzione, pura sovrastruttura.8
     Nella parte centrale del suo volume, nel tentativo di mettere in discussione una certa visione di identità, Remotti affronta una questione decisiva anche per una comprensione storica della vicenda da noi prima raccontata. L’antropologo, che peraltro condusse ricerche etnografiche in Africa, racconta che negli anni quaranta si presentarono nel continente nero, presso la tribù dei Banande, dei missionari belgi, a cui la popolazione locale affidò una collina perché qui potessero stabilizzarsi. Gli abitanti del luogo, avendo considerato i beni garantiti dal loro dio, si mostrarono ben presto disposti ad ammetterne l’esistenza; i problemi sorsero allo svelarsi dell’«idea che i missionari inculcavano subito dopo, quella cioè dell’unicità, del monoteismo».9 I missionari, infatti, non gradirono affatto la sopravvivenza di credenze e pratiche pagane proprio per questo elemento dell’identità cristiana, già irrinunciabile dall’Antico Testamento.
     Remotti, a partire da questo episodio di cui è venuto a conoscenza e da alcune affermazioni dell’illuminista Hume, arriva ad affermare, senza mezzi termini, che «il monoteismo, di per sé compiuto, perfetto, razionale, assolutamente coerente […] esibisce ciò che è il suo più grave inconveniente: l’intolleranza. Il politeismo è di per sé aperto, disponibile al dialogo e alla “corruttibilità”, conciliante, “socievole”. […] Il monoteismo è invece chiuso, compatto, incorruttibile, duro, programmaticamente avverso all’alterità e quindi all’alterazione di sé»10. E ancora insiste: «il politeismo lascia molto a desiderare per ciò che riguarda le esigenze di formazione e di rafforzamento dell’identità: si ottiene infatti un’identità assai debole con un sistema così aperto da essere disposto ad accogliere spiriti e divinità che originariamente appartengono ad altre società e culture. Il monoteismo invece, con la sua coerenza spinta all’estremo, la sua cristallina definitezza, la sua chiusura, la sua compattezza, potrebbe essere considerato il prototipo dell’identità, forse anche in definitiva l’ispiratore delle definizioni più dure e convinte dell’identità, l’istigatore dell’ossessione per l’identità».11
     Nel capitolo seguente, in cui l’antropologo vuole mettere in luce la necessaria violenza di ogni monoteismo, egli sostiene che una formazione religiosa di questo tipo «distingue, separa nettamente “noi/gli altri” e, anziché collocare “noi” in mezzo agli “altri”, posiziona il “noi” a parte, come un’“unità” assoluta: vi è differenza qualitativa tra “noi”, il cui dio è l’unico Dio, e gli “altri”, i cui dei non possono essere altro che idoli».12 Da una tale posizione deriva, secondo l’autore, una carica di violenza che finisce per sprigionarsi anche contro coloro che sembrano appartenere alla stessa identità monoteistica: «è sufficiente un’interpretazione diversa, un diverso modo di credere o di praticare, perché coloro stessi che si armano a difesa dell’unicità del proprio dio, e quindi del principio della propria identità, finiscano per produrre un’“alterità” intollerabile: da reinglobare o da sterminare».13
     La controversia dell’altare della Vittoria è diventata nota e studiata da un pubblico piuttosto ampio in quanto è stata considerata espressione perfetta del tragico scontro fra il tollerante paganesimo di Simmaco e l’intollerante cristianesimo di Ambrogio. Quanto da noi detto nella prima parte di questo scritto, ampiamente preceduto da una serie di studi sull’argomento,14 forse vale a smentire questo luogo comune di stampo illuministico che ha segnato l’interpretazione di chi ha approcciato il testo della III Relatio di Simmaco e quello delle due lettere di Ambrogio. Una visione di questo tipo, a mio avviso fortemente ideologizzata, tende a non considerare la totalità dei fattori in gioco che, tuttavia, non possono passare sotto silenzio. Il politeismo romano, lungi dall’essere così fluido e tollerante come è sembrato a tanti studiosi, è stato l’artefice di una serie di efferate persecuzioni, fra cui è possibile segnalare quella contro i druidi e quelle più note contro i cristiani; la tolleranza pagana, categoria peraltro assolutamente anacronistica per il mondo antico, mostrava il suo volto buono solo di fronte ad una alterità che non ledesse la propria ben definita identità. Simmaco nella sua Relatio si mostra disposto ad accettare una convivenza fra paganesimo e cristianesimo, a patto che il primo riacquisti il ruolo di religione di Stato e il secondo rinunci alla sua identità di religione esclusivista e universale; in altre parole il prefetto dell’Urbe auspica il ritorno ad una condizione in cui il paganesimo sia su una posizione privilegiata rispetto agli altri culti e il cristianesimo si trovi profondamente snaturato. Ciò che in Ambrogio è sempre apparso come una rigida chiusura, in realtà ha le sue radici nell’assunzione da parte del vescovo di Milano delle categorie tradizionali romani: ad uno Stato deve corrispondere la sola fede nel Dio più forte, che ora, afferma Ambrogio, sappiamo essere Gesù Cristo.

  1.      Symm. Rel. III, 3.
  2.      Fondamentale per una lettura della III Relatio D. Vera, Commento storico alle Relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa, 1981.
  3.      Symm. Rel. III, 10
  4.      A proposito si veda M. Sordi, Tolleranza e intolleranza nel mondo antico, in M. Sina (a cura di), La tolleranza religiosa. Indagini storiche e riflessioni filosofiche, Milano, 1991, pp. 1-12.
  5.      Per la complessa questione del cosiddetto «monoteismo pagano» si veda P. Athanassiadi – M. Frede (a cura di), The Pagan Monotheism in Late Antiquity, Oxford, 1999.
  6.      A proposito rimandiamo ancora alle chiare osservazioni di Sordi, Tolleranza e intolleranza nel mondo antico, p. 10.
  7.      F. Remotti, Contro l’identità, Bari, 2001, p. 5.
  8.      Lo stesso Remotti, in un’altra sua opera di argomento affine, parla dell’identità come di una «parola avvelenata, perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo». Cfr. F. Remotti, Ossessione identitaria, Bari, 2010.
  9.      Remotti, Contro l’identità, p. 40.
  10.      Remotti, Contro l’identità, p. 42.
  11.      Remotti, Contro l’identità, p. 42-43.
  12.      Remotti, Contro l’identità, p. 45.
  13.      Remotti, Contro l’identità, p. 48.
  14.      In modo particolare segnaliamo G. Zecchini, Religione pubblica e libertà religiosa nell’impero romano, in G. A. Cecconi – C. Gabrielli, Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico, Bari, 2011, pp. 187-198.
      Back to top